La Corte di Cassazione si è occupata del concetto di inerenze con tre sentenze (n. 32254/2018, n. 26185/2018 e la n. 2867/2019) a breve distanza di tempo
Avv. Pietro Tacchi Venturi
La stampa specializzata aveva dato, giustamente, ampio risalto alla sentenza della Suprema Corte n. 26185 del 18 ottobre 2018 con la quale i giudici di Piazza Cavour hanno affermato che “il principio dell’inerenza dei costi deducibili si ricava dalla nozione di reddito di impresa. Esso infatti esprime la necessità di riferire i costi sostenuti all’esercizio dell’attività imprenditoriale, escludendo quelli che si collocano in una sfera estranea ad essa, senza che si debba compiere alcuna valutazione in termini di utilità, anche solo potenziale o indiretta, in quanto è configurabile come costo anche ciò che non reca alcun vantaggio economico e non assumendo rilevanza la congruità delle spese, perchè il giudizio sull’inerenza è di carattere qualitativo e non quantitativo (Cass. 11 gennaio 2018 n.450). Infatti, in tema di IVA, il principio di inerenza dei costi deducibili si ricava dalla nozione di reddito d’impresa ed esprime una correlazione tra costi ed attività in concreto esercitata, traducendosi in un giudizio di carattere qualitativo, che prescinde, in sè, da valutazioni di tipo utilitaristico o quantitativo (Cass. 17 luglio 2018 n.18904).”
L’aspetto di maggiore rilievo sancito dalla Suprema Corte è la necessità di esprimere un giudizio qualitativo tra costo e attività in concreto esercitata. L’elemento negativo di reddito non deve quindi corrispondere necessariamente ad un ricavo ma, ragionando a contrario, non deve porsi al di fuori dell’attività di impresa.
La Corte ribatte anche “all’orientamento giurisprudenziale che continua a valorizzare l’argomento dell’antieconomicità dei costi, va rammentato che questo è ormai circoscritto dalla giurisprudenza della Corte nei seguenti termini: “In tema di IVA, non è consentito all’Amministrazione rideterminare il valore delle prestazioni e dei servizi acquistati dall’imprenditore escludendo il diritto alla detrazione, salvo che dimostri l’antieconomicità manifesta e macroscopica dell’operazione, tale da assumere rilievo indiziario di non verità della fattura o di non inerenza della destinazione del bene o servizio all’utilizzo per operazioni assoggettate ad IVA: in detta ipotesi, spetta al contribuente provare che la prestazione del bene o servizio è reale ed inerente all’attività svolta.” (Cass. 30 gennaio 2018 n.2240)”.
Il quadro potrebbe apparire chiaro dopo aver letto la sentenza e i precedenti giurisprudenziali citati, ma spesso tra contribuenti e Uffici sorgono contenziosi in materia. Gli Uffici, infatti, sembrano infatti legati proprio ad un giudizio di tipo quantitativo del costo e, soprattutto, ad una stretta correlazione tra lo stesso e l’attività esercitata.
Spesso infatti il contribuente può sostenere un elemento passivo di reddito, ancorché non strettamente connesso al proprio business, perché lo ritenga “utile” in senso lato (es. fidelizzazione del cliente).
La Corte di Cassazione è chiara nello stabilire che il costo, per essere inerente e quindi deducibile, non deve necessariamente essere correlato a un ricavo.
E’ invece il collegamento qualitativo tra costo e attività di impresa che lascia maggior spazio a interpretazioni contrastanti.
La “qualità”, infatti, implica un giudizio di valore inevitabilmente soggettivo e quindi foriero più di dubbi che di certezze.
A pochi mesi di distanza, ecco che la Corte torna ad occuparsi del concetto di inerenza con la sentenza n. 33254 del 13/12/2018.
In sede di motivazione, i Giudici approfondiscono proprio l’aspetto del collegamento con l’attività di impresa definendolo “a contrario”. Forse la Cassazione per uscire dall’impasse di fornire una definizione esaustiva di costo inerente preferisce chiarire quando deve escludersi l’inerenza (cogliendo in tal modo l’insegnamento di Montale: Non chiederci la parola che squadri da ogni lato[…] Codesto solo oggi possiamo dirti, ciò che non siamo, ciò che non vogliamo ): “il principio dell’inerenza esprime la necessità di riferire i costi sostenuti all’esercizio dell’attività imprenditoriale, escludendo quelli che si collocano in una sfera estranea a essa, senza che si debba compiere alcuna valutazione in termini di utilità, anche solo potenziale o indiretta, in quanto è configurabile come costo anche ciò che non reca alcun vantaggio economico”.[….]
“Buone regole di gestione dell’attività, che contrastano assiomaticamente con spese svantaggiose, incongrue e sproporzionate – tali ovviamente non in rapporto all’esito del costo, ma secondo un giudizio prognostico a monte, dovendosi altrimenti negare il rischio d’impresa”.
Quindi per sintetizzare, la Corte di Cassazione pone un duplice requisito per definire un costo inerente:
– non deve essere estraneo all’attività di impresa (in base ad un rapporto qualitativo);
– non deve essere, fin dall’inizio, svantaggioso, incongruo e sproporzionato.
La Corte, infine, tiene a precisare che questo orientamento non contraddice precedenti sentenze: “tale attuale impostazione giurisprudenziale assume tuttavia solo apparentemente una posizione di rottura con quella precedente: infatti, quando si consideri che per un verso viene valorizzato il rapporto, caldeggiato da autorevole dottrina, tra spesa e sua riferibilità, immediata o mediata, alla produzione del reddito (con esclusione dunque di quelle spese afferenti la c.d. disposizione del reddito), e per altro verso si instaura il rapporto tra spesa e reddito di impresa, l’abbandono dei requisiti della vantaggiosità e congruità del costo (valorizzati in una più datata interpretazione giurisprudenziali) non vuol significare che essi siano del tutto esclusi dal giudizio di valore, cui resta comunque sottoposta la spesa al fine del riconoscimento della sua inerenza e dei presupposti per la sua deducibilità”.
Con la recentissima sentenza n. 2867/2019 del 31 gennaio 2019, la Suprema Corte ribadisce i concetti sopra espressi.
L’elemento di maggiore interesse di quest’ultima pronuncia è però il richiamo alla giurisprudenza della Corte di Giustizia secondo la quale “il soggetto passivo è autorizzato a detrarre l’i.v.a. dovuta o versata per i beni o servizi acquistati quando, agendo in quanto tale nel momento dell’acquisto di detti beni o servizi, li utilizzi ai fini delle proprie operazioni imponibili, sia che esista un nesso diretto e immediato tra una specifica operazione a monte e una o più operazioni a valle che danno diritto a detrazione, sia che manchi un tale nesso, quando le spese sostenute fanno parte dei costi generali del soggetto passivo e rappresentano, in quanto tali, elementi costitutivi del prezzo dei beni o dei servizi che esso fornisce (cfr. Corte Giust. 22 ottobre 2015, Sveda; Corte Giust. 18 luglio 2013, AES-3C Maritza East 1; Corte Giust. 29 ottobre 2009, SKF)”.
Sul punto, è possibile osservare che la Corte di Giustizia più che all’interpretazione del concetto di inerenza, è interessata a disciplinare, in concreto, quando sussista o meno il diritto alla detrazione dell’I.V.A., secondo un approccio casistico tipico dei sistemi di Common Law.
Sotto questo aspetto, si cita anche la sentenza C-126/2014 secondo la quale “L’articolo 168 della direttiva 2006/112/CE del Consiglio, del 28 novembre 2006, relativa al sistema comune d’imposta sul valore aggiunto, deve essere interpretato nel senso di conferire, in circostanze come quelle del procedimento principale, a un soggetto passivo il diritto di detrarre l’imposta sul valore aggiunto assolta a monte per l’acquisto o per la fabbricazione di beni d’investimento intesi a un’attività economica progettata, di turismo rurale o ricreativo, i quali siano direttamente destinati all’utilizzo gratuito da parte del pubblico, ma possano consentire la realizzazione di operazioni imponibili, se sussiste un nesso diretto e immediato tra le spese connesse alle operazioni a monte e una o più operazioni a valle che danno diritto a detrazione ovvero con il complesso delle attività economiche del soggetto passivo, ciò che spetta al giudice del rinvio verificare sulla base di elementi oggettivi.”.