Il punto sul cumulo dei termini di sospensione da “Coronavirus” al procedimento di adesione

Termine processuale

Due interventi del legislatore e due circolari ministeriali non chiariscono il dubbio sul cumulo.

NOTA: il presente contributo è aggiornato al 23 aprile 2020

Successivamente al D.L. 11/2020 è stato pubblicato un ulteriore D.L., il 18/2020 oltre a due circolari dell’Agenzia delle Entrate (la n. 6/E e la n. 10/E del 2020).

Questi interventi normativi e interpretativi hanno dissipato il dubbio, sorto inizialmente, circa l’applicazione dei termini di sospensione processuale (dall’8 marzo all’11 maggio) anche al processo tributario.

Ciononostante, le norme e le circolari  sopra richiamate hanno creato un’ulteriore apprensione nei professionisti in quanto non hanno chiarito se i 90 giorni -in cui dovrebbe svolgersi il procedimento di adesione (ex art. 6 D.Lgs. 218/1997)- siano oggetto della sospensione prevista dall’art. 83 del D.L. 18/2020 ovvero dall’8 marzo all’11 maggio.

Secondo alcuni interpreti, infatti, la disciplina contenuta dall’art 83, co. 2, riguarda esclusivamente termini di natura processuale, conseguentemente, non può trovare applicazione all’accertamento con adesione, in quanto tale istituto ha natura amministrativa.

La Circolare n. 6/2020 ha invece espresso un parere favorevole al cumulo.

Chiaramente, l’orientamento dell’Agenzia è utile ma non decisivo alla soluzione del problema in quanto l’eventuale inammissibilità di un ricorso presentato oltre i termini è rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado di giudizio. In breve, anche se controparte (rectius l’Amministrazione finanziaria) non sollevasse la questione, il Giudice di merito o di legittimità, potrebbe rilevarlo autonomamente.

Per inquadrare correttamente il problema è necessario fare un breve excursus.

L’accertamento con adesione è stato introdotto con il D.lgs. 218/1997 e prevede la possibilità di un “confronto” con l’Amministrazione Finanziaria prima (art. 6. comma 1) o dopo la notifica di un atto impositivo (art. 6 comma 2).

La distinzione non è di poco conto ed è decisiva per il prosieguo dell’analisi.

All’epoca, l’Amministrazione Finanziaria, in assenza di norme sul punto, si era espressa in senso favorevole al cumulo dei 90 giorni previsti per l’adesione e della sospensione feriale dei termini (Circ. MEF, n. 235/1997; Ris. MEF, n. 159/1999; Circ. n. 65/E del 2001).

Se non che la Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 11632 del 05/06/2015 ha ritenuto che il procedimento di adesione abbia natura amministrativa e quindi i relativi termini non siano oggetto della sospensione feriale.

Il Legislatore ha quindi emanato l’art. 7 quater comma 18 D.L. 193/2016 stabilendo: “i termini di sospensione   relativi   alla   procedura   di accertamento con adesione si intendono cumulabili con il periodo di sospensione feriale dell’attivita’ giurisdizionale”.

Con tale intervento, gli effetti dell’Ordinanza della Corte di Cassazione sopra accennata potevano dirsi annullati.

Torniamo dunque alla decisone che ci occupa: la sospensione processuale prevista dal D.L. 18/2020 si applica al procedimento di mediazione?

Molti osservatori invocano un ulteriore intervento del legislatore per risolvere il dubbio.

A parere di chi scrive, la soluzione, favorevole al cumulo, è nella ratio legis dell’art. 83 (se il legislatore, per evitare contagi, ha voluto sospendere le udienze perché avrebbe dovuto consentire gli incontri presso gli Uffici?) ma soprattutto nella natura del procedimento di adesione.

Tale natura è senza dubbio amministrativa se l’adesione si attiva in seguito a “accessi, ispezioni o verifiche” di cui al comma 1 dell’art. 6.

L’adesione assume invece carattere processuale se attivata ai sensi del comma 2 che riporto per comodità “il contribuente nei cui confronti sia stato notificato avviso di accertamento o di rettifica, non preceduto dall’invito di cui agli articoli 5 e 5-ter, può formulare anteriormente all’impugnazione dell’atto innanzi la commissione tributaria provinciale, istanza in carta libera di accertamento con adesione, indicando il proprio recapito, anche telefonico”.

A sommesso parere dello scrivente, quindi, dopo la notifica dell’atto impositivo si apre una fase processuale (disciplinata dal D.Lgs. 546/1992) che rimane tale anche in caso di attivazione del procedimento di adesione.

In quest’ottica, l’ordinanza n. 11632/2015 aveva, semplicemente, espresso un principio sbagliato.

Tuttavia, il consiglio pratico, improntato alla prudenza ed alla massima tutela del cliente, è quello di non ritenere applicabile la sospensione feriale ai 90 giorni previsti per l’adesione per non incorrere, magari tra molti anni, nella tagliola dell’inammissibilità.

Avv. Pietro Tacchi Venturi

L’emergenza Corona virus ferma anche la Giustizia tributaria?

Corona Covid-19

Il D.M. che dovrebbe essere pubblicato a breve integra ed interpreta il D.M. 11/2020 e chiarisce l’esatto ambito applicativo della sospensione.

Circola in queste ore una bozza di decreto ministeriale che integra ed interpreta il D.M. 11/2020.
L’indomani dell’emanazione di tale testo di legge si era posto l’interrogativo se la sospensione ivi prevista si applicasse anche a tutte le scadenze connesse ai procedimenti tributari e non solo quelli connessi alle udienze che ricadevano nel periodo intercorrente tra l’8 e il 22 marzo.
La stampa specializzata si era espressa sia in senso positivo che negativo.
Effettivamente entrambe le interpretazioni poggiano su argomenti validi.

In senso favorevole all’applicazione di una sospensione generalizzata:

  1. Il comma 1 stabilisce il rinvio d’ufficio delle udienze previste tra l’8 e il 22 marzo dei procedimenti civili e penali. Il comma secondo sancisce la sospensione di tutti i termini relativi ai procedimenti di cui al primo comma. Il termine “procedimento” è più ampio del termine “processo” e non può che fare riferimento in generale a tutti i termini relativi al rito tributario. Nel caso del rito tributario, ad esempio, il D.M. avrebbe sospeso anche i termini per la notifica del ricorso a controparte o la costituzione in giudizio (al pari di quanto avviene durante la sospensione feriale dal 1 al 31 agosto).
  2. La ratio sottesa al D.M. è quella di “bloccare” tutti i procedimenti ed i processi sia per evitare assembramenti nelle aule di giustizia, sia per consentire agli operatori giuridici di rispettare le norme poste dal decreto (quindi non ricevere clienti o muoversi per adempimenti vari).

In senso negativo:

  1. Il secondo comma dell’art. 1 sancisce espressamente che “sono sospesi i termini per il compimento di qualsiasi atto dei procedimenti indicati al comma 1” e pertanto fa riferimento solo ai procedimenti relativi alle udienze ricadenti nel periodo di sospensione.
  2. Il rito tributario è quasi interamente telematico (restano esclusi i procedimenti incardinati prima dell’1 luglio 2019) e quindi non ricorre l’esigenza di evitare la circolazione dei professionisti per gli adempimenti connessi.

L’equivoco nasce dall’infelice tecnica legislativa (procedimento/processo) cui però la bozza di D.M. (se verrà emanato nella versione nota allo scrivente) pone rimedio.
L’art. 74 del capo IV infatti elimina, al comma secondo sopra riportato, il riferimento ai “soli” procedimenti di cui al comma primo e quindi la sospensione si applica, senza ombra di dubbio a tutti i procedimenti.
Infine, appare molto utile la precisazione che:

quando il termine è computato a ritroso e ricade in tutto in parte nel periodo di sospensione, è differita l’udienza o l’attività da cui decorre il termine in modo da consentirne il rispetto”.

Pertanto, se il termine per il deposito di documenti o memorie ricade nel periodo di sospensione, l’udienza dovrà essere rinviata al fine di consentirne il rispetto.

L’inerenza richiede un rapporto qualitativo tra costo e attività di impresa

Tasse e costi deducibili

La Corte di Cassazione si è occupata del concetto di inerenze con tre sentenze (n. 32254/2018, n. 26185/2018 e la n. 2867/2019) a breve distanza di tempo

Avv. Pietro Tacchi Venturi

La  stampa specializzata aveva dato, giustamente, ampio risalto alla sentenza della Suprema Corte n. 26185 del 18 ottobre 2018 con la quale i giudici di Piazza Cavour hanno affermato che “il principio dell’inerenza dei costi deducibili si ricava dalla nozione di reddito di impresa. Esso infatti esprime la necessità di riferire i costi sostenuti all’esercizio dell’attività imprenditoriale, escludendo quelli che si collocano in una sfera estranea ad essa, senza che si debba compiere alcuna valutazione in termini di utilità, anche solo potenziale o indiretta, in quanto è configurabile come costo anche ciò che non reca alcun vantaggio economico e non assumendo rilevanza la congruità delle spese, perchè il giudizio sull’inerenza è di carattere qualitativo e non quantitativo (Cass. 11 gennaio 2018 n.450). Infatti, in tema di IVA, il principio di inerenza dei costi deducibili si ricava dalla nozione di reddito d’impresa ed esprime una correlazione tra costi ed attività in concreto esercitata, traducendosi in un giudizio di carattere qualitativo, che prescinde, in sè, da valutazioni di tipo utilitaristico o quantitativo (Cass. 17 luglio 2018 n.18904).”

L’aspetto di maggiore rilievo sancito dalla Suprema Corte è la necessità di esprimere un giudizio qualitativo tra costo e attività in concreto esercitata. L’elemento negativo di reddito non deve quindi corrispondere necessariamente ad un ricavo ma, ragionando a contrario, non deve porsi al di fuori dell’attività di impresa.

La Corte ribatte anche “all’orientamento giurisprudenziale che continua a valorizzare l’argomento dell’antieconomicità dei costi, va rammentato che questo è ormai circoscritto dalla giurisprudenza della Corte nei seguenti termini: “In tema di IVA, non è consentito all’Amministrazione rideterminare il valore delle prestazioni e dei servizi acquistati dall’imprenditore escludendo il diritto alla detrazione, salvo che dimostri l’antieconomicità manifesta e macroscopica dell’operazione, tale da assumere rilievo indiziario di non verità della fattura o di non inerenza della destinazione del bene o servizio all’utilizzo per operazioni assoggettate ad IVA: in detta ipotesi, spetta al contribuente provare che la prestazione del bene o servizio è reale ed inerente all’attività svolta.” (Cass. 30 gennaio 2018 n.2240).

Il quadro potrebbe apparire chiaro dopo aver letto la sentenza e i precedenti giurisprudenziali citati, ma spesso tra contribuenti e Uffici sorgono contenziosi in materia. Gli Uffici, infatti, sembrano infatti legati proprio ad un giudizio di tipo quantitativo del costo e, soprattutto, ad una stretta correlazione tra lo stesso e l’attività esercitata.
Spesso infatti il contribuente può sostenere un elemento passivo di reddito, ancorché non strettamente connesso al proprio business, perché lo ritenga “utile” in senso lato (es. fidelizzazione del cliente). 
La Corte di Cassazione è chiara nello stabilire che il costo, per essere inerente e quindi deducibile, non deve necessariamente essere correlato a un ricavo.
E’ invece il collegamento qualitativo tra costo e attività di impresa che lascia maggior spazio a interpretazioni contrastanti.
La “qualità”, infatti, implica un giudizio di valore inevitabilmente soggettivo e quindi foriero più di dubbi che di certezze.

A pochi mesi di distanza, ecco che la Corte torna ad occuparsi del concetto di inerenza con la sentenza n. 33254 del 13/12/2018.
In sede di motivazione, i Giudici approfondiscono proprio l’aspetto del collegamento con l’attività di impresa definendolo “a contrario”. Forse la Cassazione per uscire dall’impasse di fornire una definizione esaustiva di costo inerente preferisce chiarire quando deve escludersi l’inerenza (cogliendo in tal modo l’insegnamento di Montale: Non chiederci la parola che squadri da ogni lato[…] Codesto solo oggi possiamo dirti, ciò che non siamo, ciò che non vogliamo ): “il principio dell’inerenza esprime la necessità di riferire i costi sostenuti all’esercizio dell’attività imprenditoriale, escludendo quelli che si collocano in una sfera estranea a essa, senza che si debba compiere alcuna valutazione in termini di utilità, anche solo potenziale o indiretta, in quanto è configurabile come costo anche ciò che non reca alcun vantaggio economico”.[….]
Buone regole di gestione dell’attività, che contrastano assiomaticamente con spese svantaggiose, incongrue e sproporzionate – tali ovviamente non in rapporto all’esito del costo, ma secondo un giudizio prognostico a monte, dovendosi altrimenti negare il rischio d’impresa”.

Quindi per sintetizzare, la Corte di Cassazione pone un duplice requisito per definire un costo inerente:
– non deve essere estraneo all’attività di impresa (in base ad un rapporto qualitativo);
– non deve essere, fin dall’inizio, svantaggioso, incongruo e sproporzionato.

La Corte, infine, tiene a precisare che questo orientamento non contraddice precedenti sentenze: “tale attuale impostazione giurisprudenziale assume tuttavia solo apparentemente una posizione di rottura con quella precedente: infatti, quando si consideri che per un verso viene valorizzato il rapporto, caldeggiato da autorevole dottrina, tra spesa e sua riferibilità, immediata o mediata, alla produzione del reddito (con esclusione dunque di quelle spese afferenti la c.d. disposizione del reddito), e per altro verso si instaura il rapporto tra spesa e reddito di impresa, l’abbandono dei requisiti della vantaggiosità e congruità del costo (valorizzati in una più datata interpretazione giurisprudenziali) non vuol significare che essi siano del tutto esclusi dal giudizio di valore, cui resta comunque sottoposta la spesa al fine del riconoscimento della sua inerenza e dei presupposti per la sua deducibilità”.

Con la recentissima sentenza n. 2867/2019 del 31 gennaio 2019, la Suprema Corte ribadisce i concetti sopra espressi.
L’elemento di maggiore interesse di quest’ultima pronuncia è però il richiamo alla giurisprudenza della Corte di Giustizia secondo la quale “il soggetto passivo è autorizzato a detrarre l’i.v.a. dovuta o versata per i beni o servizi acquistati quando, agendo in quanto tale nel momento dell’acquisto di detti beni o servizi, li utilizzi ai fini delle proprie operazioni imponibili, sia che esista un nesso diretto e immediato tra una specifica operazione a monte e una o più operazioni a valle che danno diritto a detrazione, sia che manchi un tale nesso, quando le spese sostenute fanno parte dei costi generali del soggetto passivo e rappresentano, in quanto tali, elementi costitutivi del prezzo dei beni o dei servizi che esso fornisce (cfr. Corte Giust. 22 ottobre 2015, Sveda; Corte Giust. 18 luglio 2013, AES-3C Maritza East 1; Corte Giust. 29 ottobre 2009, SKF)”.

Sul punto, è possibile osservare che la Corte di Giustizia più che all’interpretazione del concetto di inerenza, è interessata a disciplinare, in concreto, quando sussista o meno il diritto alla detrazione dell’I.V.A., secondo un approccio casistico tipico dei sistemi di Common Law.
Sotto questo aspetto, si cita anche la sentenza C-126/2014 secondo la quale “L’articolo 168 della direttiva 2006/112/CE del Consiglio, del 28 novembre 2006, relativa al sistema comune d’imposta sul valore aggiunto, deve essere interpretato nel senso di conferire, in circostanze come quelle del procedimento principale, a un soggetto passivo il diritto di detrarre l’imposta sul valore aggiunto assolta a monte per l’acquisto o per la fabbricazione di beni d’investimento intesi a un’attività economica progettata, di turismo rurale o ricreativo, i quali siano direttamente destinati all’utilizzo gratuito da parte del pubblico, ma possano consentire la realizzazione di operazioni imponibili, se sussiste un nesso diretto e immediato tra le spese connesse alle operazioni a monte e una o più operazioni a valle che danno diritto a detrazione ovvero con il complesso delle attività economiche del soggetto passivo, ciò che spetta al giudice del rinvio verificare sulla base di elementi oggettivi.”.

In materia di sospensione feriale dei termini la novella del 2015 è retroattiva

Agenda legale dello Studio Tributario Tacchi Venturi

L’art. 9, lett. l) del D.lgs. 156/2015, che ha esteso la sospensione feriale dei termini anche all’accertamento con adesione, è retroattivo

La C.T.R. Lazio, con la sentenza n. 3835 del 7 giugno 2018 fornisce un utile chiarimento circa un argomento che, almeno in apparenza poteva sembrare “scontato” in seguito alla novella del 2015.

Il punto di partenza è chiaramente l’art. 1, c.1, della Legge n. 742 del 1969 secondo il quale “il decorso dei termini processuali relativi alle giurisdizioni ordinarie ed a quelle amministrative è sospeso di diritto dal 1 al 31 agosto di ciascun anno, e riprende a decorrere dalla fine del periodo di sospensione. Ove il decorso abbia inizio durante il periodo di sospensione, l’inizio stesso è differito alla fine di detto periodo”.

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Il riconoscimento di debito ha trovato finalmente la sua tassazione?

Una recente sentenza della Suprema Corte stabilisce per il riconoscimento di debito l’imposta di registro in misura fissa

Come riportato dal “Sole24Ore”, edizione del 21 giugno, la Corte di Cassazione è tornata ad occuparsi della corretta applicazione dell’imposta di registro per gli atti di riconoscimento di debito (sentenza 481 dell’11 gennaio 2018).

La notizia positiva per i contribuenti è che, secondo i Giudici di Piazza Cavour, a tale tipo di atti si applica l’imposta in misura fissa.

Spesso infatti gli Uffici ritengono che la ricognizione di debito ricada nella disciplina dell’art. 9 della Tariffa allegata al D.P.R. 131/1986, che tassa al 3% gli “atti diversi da quelli altrove indicati aventi per oggetto prestazioni a contenuto patrimoniale”.

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Quando opera la presunzione ex art. 32 sui conti correnti intestati a terzi?

La Corte di Cassazione in materia di onere della prova e conti correnti “formalmente” intestati a terzi, con un’attenzione particolare al merito della causa.

La presunzione legale ex art. 32 D.P.R. 600/1973 può operare anche nei confronti di conti correnti intestati a parenti dell’amministratore della Srl.

Il principio di diritto espresso dalla Suprema Corte con la sentenza n. 15875 del 15 giugno 2018 non fa altro che ribadire un orientamento costante: nelle società di capitali a ristretta base azionaria, la presunzione ex art. 32 opera anche per i conti correnti intestati formalmente a terzi (il padre dell’amministratore nel caso di specie) laddove l’Ufficio dimostri, anche tramite presunzioni semplici, la natura fittizia dell’intestazione.

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Il valore dei terreni vicini non basta a rideterminare l’imposta di registro

I terreni ubicati nella stessa zona non sono necessariamente similari ai fini dell’imposta di registro ai sensi dell’art. 52 D.P.R. 131/1986

Con una concisa, ma ben motivata, ordinanza (n. 15494 del 17/05/2018) la Corte di Cassazione rigetta il ricorso della A.F. che era già risultata soccombente nei due gradi di merito. La materia del contendere era la rettifica, col metodo comparativo, del valore di un terreno ai fini dell’imposta di registro.

L’Ufficio aveva rettificato il valore del terreno portando all’attenzione dei giudici due compravendite aventi come oggetto terreni ritenuti similari in quanto compresi nello stesso foglio catastale del terreno “accertato”.

La Suprema Corte si è espressa su tale aspetto, ritenendo non sufficiente la mera vicinanza per fondare la rettifica ex art. 52 D.P.R. 131/1986. I terreni assunti dall’Ufficio come raffronto, infatti, erano siti in una zona urbanizzata ed erano oggetto di una convenzione di urbanizzazione.

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